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Non avevo ancora 9 anni quando la più grande manifestazione di musica spettacolo parole e libertà andò in scena per tre giorni in una grandissima radura a Bethel.

Ero troppo piccolo per capire o sapere che cosa significasse quell’evento. La mia vita in crescita non si era ancora immersa così prepotentemente nella storia del rock, mi limitavo, come distratto partecipante familiare ad assistere e ascoltare al giovedì pomeriggio i 45 giri portati da un’amica di mia madre, una certa Silvana, dotata di mangiadischi rigorosamente arancione e un contenitore a fisarmonica con all ‘interno copertine variopinte e colorate di cantanti e gruppi che ignoravo totalmente chi potessero essere.

Io ero ancora ancora impegnato con le avventure dei fratelli Bonanza, i telefilm di Zorro e un mare di soldatini con cui campeggiavo strenue battaglie che duravano per l’intero pomeriggio. Il sottofondo di questi miei piccoli interessi erano brani beat in prevalenza italiani che sentivo con malcelata indifferenza.

Woodstock fu un simbolo per tutti quelli di qualche generazione più avanti alla mia, ma, con un po’ di pazienza e con l’andare degli anni me ne accorsi anch’io.

La prima cosa che mi colpì di quella grandiosa manifestazione fu il costo del 33 giri, perchè essendo un triplo album era completamente fuori dalle mie portate economiche. Si pensò anche di fare una colletta con gli amici di scuola, ma si discusse immediatamente su chi sarebbe stato comunque, dopo una serie di giri e di ascolti, l’ultimo proprietario del disco. La questione si spense da lì a poco, quando un nostro compagno propose di spezzare in tre la copertina e tenere ognuno di noi un disco a testa.

In quegli anni adolescenti mi scoprivo, come ho scritto altre volte, curioso di spaziare nella conoscenza dell’arte della musica. Ogni copertina, ogni nome, ogni fotografia mi evocava emozioni nuove miste a un’immensa voglia di sapere chi fossero quelle band e quegli artisti con generi e stili totalmente diversi.

Sicuramente oggi posso dire che lo stile amato in quegli anni era molto imperniato sul genere british, spaziando per gruppi come i Led Zeppelin, The Who, Pink Floyd, Deep Purple, Beatles e Rolling Stones e annoverando nei miei primari approcci musicali artisti come David Bowie, Elton John, Eric Clapton e molti altri, conoscendo poco o niente del grande fenomeno musicale americano.

Woodstock fu per me una specie di battesimo, una cavalcata nella scoperta di band, solisti e stili che entravano con forza e irruenza nella mia collezione di Long Playing esposta con orgoglio nella mia cameretta. Conobbi così il grandissimo Jimi Hendrix (inglese d’adozione tra l’altro) che mi colpì con solo per i brani ma per la fantasmagorica esibizione sul palco con tanto di incendio della chitarra.

Ma non fu da meno il quartetto di Crosby Still Nash & Young, nelle polivalenti versioni acustiche ed elettriche che mi portò ad amare quel genere – denominato alla buona “country rock“, insegnandomi che anche negli USA la musica aveva una forza penetrativa enorme con una genialità paritetica ai colleghi britannici.

Rimasi affascinato dal cosiddetto Psichedelic rock dei Grateful Dead, e dal folk lisergico degli Incredible String Band, dallo stile libero di Carlos Santana per poi annoverare tra le cose più entusiasmanti ascoltate le note roche e graffiati della voce di Janis Joplin.

L’ensamble era energico, differente da serata a serata, dove cantautori e cantautrici si alternavano a momenti irrefrenabili e dirompenti come l’esibizione degli Who o dei Creedence Clearwater Revival.

Ma la cosa a dirla tutta che più mi colpì, fu quell’enorme massa di giovani che furono i veri protagonisti di quei tre giorni irripetibili. Nei miei occhi scintillavano le danze, gli abiti, le capigliature, l’aggregazione, che un evento come Woodstock aveva saputo convogliare in un unico punto, e che sarebbe poi esploso come simbolo in tutto il pianeta. Mi piaceva immaginare l’arrivo di quelle persone, ognuno da una città e uno stato diverso, ma tutti con un unico grande sogno – Peace and rock music – da condividere insieme.

Molti anni dopo, mi chiesi come mai, alcune grandi icone della musica internazionale non furono presenti a un evento di quella portata, e così andai a curiosare libri e articoli su giornali specializzati dove spiegavano le motivazioni del perchè i Beatles, i Rolling Stones, i Led Zeppelin e tantissimi altri miti della musica non furono su quel palco insieme agli altri. Fu strano leggere alcune richieste economiche decisamente alte, altri con problematiche di spostamenti o non condivisioni con lo stile della manifestazione, ed altri ancora che non compresero forse l’importanza di quel che Woodstock sarebbe stato da lì in futuro.

E a volte, giocando con la fantasia, mi diverto ancora oggi a immaginarmi jam session tra i presenti e gli assenti, su quel che sarebbe potuto accadere sia musicalmente che umanamente parlando, posizionando su quel palco in un’unica esibizione condivisa band come i Fab Four e i Beach Boys, o i Doors con Jimi Hendrix.

Forse tanti di voi ci avranno pensato. Forse anche tanti di loro. Per quel sogno di – pace libertà e rock – chiamato Woodstock

Guido Tognetti

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