Negli anni settanta l’abbinata adolescente/strumento musicale, era una consuetudine, più del caffè o caffelatte a colazione.
Ogni ragazzo appassionato di musica sentiva dentro di se la chiamata dell’arte, sognando di diventare un talentuoso David Gilmour o un vocalist hard rock stile Robert Plant.
La scuola era il ritrovo dei primi approcci musicali che si inanellavano all’idea di formare una rock band, o meglio – un gruppo rock – come si diceva allora.
Tra i banchi si ipotizzava il nome della band, cosa fondamentale prima ancora di avere il gruppo. L’impegno poteva durare settimane per cercare qualcosa che potesse diventare – mitico – come Rolling Stones o Deep Purple.
La seconda ricerca era trovare, nell’ordine, un virtuoso solista della chitarra elettrica, un tastierista, un bassista e un batterista. La voce e il chitarrista ritmico abitualmente era colui che aveva inventato e deteneva il nome della band.
Il primo approccio alla musica Live fu nella soffitta di casa mia dove io (voce e chitarra) mi unii a uno dei miei migliori amici che decise di suonare la batteria. La Band (noi due) esordì con il nome ARAVONS (che non era poi altro che Novara al contrario con un S artistica in finale per usare un plurale).
Al duo si unì saltuariamente un bassista (in realtà chitarrista) che si mise a disposizione per creare un sound che avesse corposità e forza, con l’aggiunta alla domenica pomeriggio di un tastierista di un paese vicino che alla mattina suonava l’organo in chiesa.
Il nome cambiò in – Sezione Aurea – con una strizzata d’occhio ai nomi dei gruppi progressive italiani del momento, ma quando tutto sembrò essere a posto, i vari elementi con diverse sintonie e gusti musicali si distaccarono dal programma prove.
Quando rimasi solo, mi unii ad altri due amici (chitarra/piano) e chitarra acustica cercando di ricreare le atmosfere sonore della California del country rock imitando uno stile compositivo e corale stile Crosby Still e Nash.
Ma anche qui qualcosa andò storto, e il trio acustico (con mia madre al moog) dopo innumerevoli prove si sciolse prima di poter posare il piede sul palco. Iniziai allora una serie di collaborazioni varie, immaginandomi come un John Lennon fuori dalla band e alla ricerca di musicisti che potessero ricreare il sound giusto per i brani che andavo a scrivere come solista. Le settimane si alternavano tra compiti scolastici e ricerche spasmodiche di persone che sapessero adattarsi alle mie necessità e velleità artistico/musicali, con risultati complicati visto che nessuno aveva in comune qualcosa con qualcun altro.
Ma all’epoca la vittoria era persistere alla sfida e così, con i miei pochi anni tra le mani, decisi di affrontare il pubblico a mani nudi. Io, una chitarra e una manciata di canzoni scritte per l’occasione, in un piccolo teatro dell’oratorio. Quella serata, andò incredibilmente bene, e il pubblico apprezzò molto lo sforzo di mostrarmi cantautore libero e ribelle, al punto che alla fine mi avvicinò un giornalista che mi fece un’intervista per il giornale della città con tanto di reportage e descrizione di ogni brano.
Il giorno dopo, felice, andai in edicola per leggere l’articolo che parlava di me. Lo cercai sfogliando velocemente le pagine fino al arrivare allo spazio dedicato allo spettacolo. Ed eccolo lì, lo scritto promesso.
GRANDE SPETTACOLO DI GUIDO TOGNELLI… Avevano sbagliato il nome…
Guido Tognetti
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